venerdì 9 novembre 2018

Fillebagassa. Di Francesco Melis



“Quanto cazzo abbaia questo cane, figlio di puttana, figlio di puttana! Non la vuole smettere. Smettila, o ti spacco il cranio. Mo’ arriva la giusta, me lo sento, mo’ mi spiccano. Non ci torno in galera, basta con la galera”. Andy arriva veloce, con le sue falcate lunghe, decise, ha qualcosa in mano, qualcosa di lungo, mi passa di fronte, due colpi, secchi, due tonfi, un latrato, il sangue. “Figlio di bagassa”. Queste le sue uniche parole. E poi “Che cosa ci stai a fare qui, ci vuoi proprio tornare, dentro, idiota imbecille!”

Il suo tono è stizzito, avvelenato, la sua voce roca, tesa. Il limite non è ancora varcato, ma manca poco, mi vorrebbe ammazzare di colpi, lo farebbe proprio. Non ci godrebbe più di tanto, ma è questo che gli comanda lo stomaco. I nervi, sempre affilati, taglienti come rasoi da barbiere pronti per la rasatura.

Mi ripassa davanti, le mascelle gli si gonfiano, pulsano, il naso tira su. Sì, lo farebbe proprio, mi pesterebbe a sangue. I passi lunghi, decisi, secchi come a voler tagliare l’aria, accompagnati dalle braccia, anche queste lunghe, nerborute, e le mani chiuse, a pugno. Scavalca la finestra, scomparendo nel buio. Passano poche auto, la notte è calda, la gente sarà al mare.

Queste sono le notti migliori per questi lavoretti. Poi sento un motore, non vedo la macchina, ma sento il rumore, piccola cilindrata. Cazzo. Uno sportello si apre, niente voci, silenzio di tomba. Dei passi bucano il silenzio, lenti, duri, pesanti come il battere del mio cuore. Sto in silenzio, non respiro. Sì, viene qui.

Santo Cielo!. Ne vedo l’ombra, si avvicina al cancello, stringe con le mani le barre di acciaio verde, quasi c’infila la testa. Poi qualche secondo ancora, va verso l’estremità destra del cancello, facendo la stessa cosa, dunque va a sinistra, infine di nuovo al centro, attacca un foglietto di carta sulla serratura.

Se ne va. Era una guardia giurata di ronda. Vattene, vattene, anche oggi il tuo dovere l’hai fatto. Bravo. Sento lo sportello che sbatte, la marcia che ingrana, lo voglio vedere andarsene, sporgo la testa alla mia sinistra, girando il busto fra le sbarre. Una Fiesta nera, come il colore della puttana accanto a lui.

E sì, sembrerebbe appartenere proprio a quella categoria. Bravo. Rido. La lucciola stanotte baratterà il suo culo con il nostro, o forse con quello del suo nobile cavaliere, chi lo sa. Scompaiono quasi subito, dietro il rampicante verde e fitto che ricopre l’inferriata per intero, a parte qualche breccia, come quello scorcio. Di notte, di ombre, di luci gialle di lampioni troppo vecchi per un quartiere così prestigioso. Troppo isolato, ma forse è così prestigioso anche per questo. Tranquillità, pace, aria buona, abbastanza lontano dal casino cittadino, ma non troppo. Tanto ci sono le ronde degli sceriffi. Una all’ora. Vediamo se ripassa. In un’ora la scopatina se la fa. Per me non torna, anche se ripassa non ci troverà più.

Brano tratto da "Short story", Sa Babbaiola Edizioni


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