Carbonia. Un tempo
speranza per moltitudini indistinte di persone, giunte da tutte le regioni
d’Italia per trovare un lavoro, di certo influenzate dalla propaganda
totalizzante del regime che celebrava la propria potenza
edificatrice. Molti trovarono un impiego nelle innumerevoli miniere carbonifere
del territorio, in cui trovarono sostentamento per le
proprie famiglie ma talvolta anche la malattia, consigliera della morte
prematura e sciagurata. Numerosi libri, disparate ricerche, centinaia di pagine
hanno parlato e ci parlano del dolore, delle miserie, delle difficoltà e del
coraggio di questi indomiti operai, uomini sacrificati nell’altare pagano del
salario in una Repubblica che, dopo il fatidico 48’ , s’incensa doppiamente
d’essere fondata sul lavoro. La Costituzione italiana, si, quali lussureggianti
aggettivi utilizza per i suoi sacri capi, articoli, commi... Lavoratori morti a
causa di frane, lavoratori morti per dinamite fatta esplodere incautamente da
giovani inesperti, lavoratori morti per silicosi, lavoratori morti
intrappolati, schiacciati, strozzati, annientati, polverizzati…
Già, Carbonia, fantastica città del carbone. Città nata dal nulla, città simbolo della potenza edificatrice del fascio, città simbolo dell’idea stessa del regime imperialista, che intendeva plasmare un insieme indistinto di popoli per mutarli in nazione compatta, unica, solida. In ridotte dimensioni quel nucleo urbanizzato rispecchia ciò che il fascismo fece, o tentò di fare, sull’intatto stivale unito dalle armi dei Savoia. Una nazione che non esisteva, una nazione composta da popoli, etnie, culture diametralmente opposte e variegate. Il fascismo provò ad amalgamare queste diversità, cercò di farlo con la legge, con la propaganda, forse tentò di farlo col diritto, di certo tentò col manganello e con la spada bellica. A Carbonia, cercò di farlo promettendo prosperità e forse, nonostante le difficoltà, in parte ci riuscì. Queste genti, al di là dei progetti, degli slogan, delle immagini, fu unificata e cimentata dal dolore e dalle difficoltà del quotidiano, dalla primitiva lotta degli uomini per sopravvivere.
A Carbonia incontrerai
individui che nulla avevano in comune se non le linee scrupolose della loro
povertà, dai tratti somatici così diversi, distanziate da gesti mai compiuti e
da rituali autoctoni. Chissà. Sarebbe stato interessante far parte di quel
particolare melting pot, come gli americani chiamano l’incontrarsi ed il
convivere delle diverse genti su un medesimo territorio. Questa cittadina è un
infinitesimale melting pot, un miscuglio, una fucina in cui si forgiarono tutte
le culture d’Italia.
Desti Napoletani,
arcigni pugliesi, siciliani oppure laziali, insieme a sardi o qualsivoglia
genere di meridionali, tutti insieme in una nuova realtà ad afferrare sogni,
stipati in case identiche le une alle altre, a schiera, a croce, lineari,
metafora o monito del loro destino comune. Oggi come allora quell'intreccio promiscuo è certificato dai cognomi ancora esistenti, come tracce lasciate
sulla spiaggia da uno stanco venditore di dolciumi estivi.
Cognomi non di certo
sardi, ma nemmeno spagnoli oppure arabi, cognomi improbabili, cognomi che
talvolta si trasformano in aggettivi, sostantivi, verbi. Cognomi appartenenti
ad etnie un tempo dominatrici, cognomi che potrebbero rappresentare un vizio
oppure una colpa della famiglia originaria, cognomi che documentano lo stato
d’abbandono al momento della nascita, cognomi che storpiano, etichettando un
individuo già nel suo embrionale stato. Indossano dunque questi cognomi
continentali, non sapendo più a quale stirpe appartengano, invitati a perdere
le proprie radici da un destino ignoto ed insondabile, invitati a non guardare
indietro, a non cercare un’origine annientata da un pericoloso viaggio questa
volta senza ritorno.
Brano tratto da
"Short story", Sa Babbaiola Edizioni
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